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Massimo Di Quirico

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Gli scritti di Antonio Pezzullo









I “miei” Caravaggio
(Una selezione dei migliori dipinti del genio)


SECONDA PARTE
I dipinti in Italia


Michelangelo Merisi, detto il “Caravaggio”, oggi è unanimemente considerato come uno dei più grandi pittori di tutti i tempi. Ma non è stato sempre così: famoso durante la sua vita, fu dimenticato per molto tempo dopo la sua scomparsa ed è stato poi riscoperto solamente a partire dalla metà del Novecento.  

Sin dai banchi di scuola mi sono appassionato alla sua arte rivoluzionaria ma solo col tempo sono riuscito ad ammirare dal vivo una buona parte dei suoi quadri più famosi, tra cui molti sparsi per il mondo.

Questa mia personale “galleria” dipende ovviamente dai luoghi che ho visitato.

Dopo aver trattato sulle opere viste all’Estero, in questa seconda parte riporto i suoi capolavori che ho visto in Italia, escluso quelli romani. Per i numerosi dipinti presenti a Roma, invece, dedicherò un’apposita parte.

Le seguenti foto sono esclusivamente le mie personali (all right reserved), salvo quelle dove è diversamente indicato.
Caravaggio - Le sette opere di Misericordia - Napoli

FIRENZE

Caravaggio non lavorò mai a Firenze. Tuttavia la città sull’Arno, grazie ai suoi splendidi musei che raccolgono le grandi collezioni Medicee, possiede diverse opere dell’artista.


GALLERIA DEGLI UFFIZI

Il prestigioso museo ospita una raccolta di opere d'arte inestimabili, derivanti, come nucleo fondamentale, dalle collezioni dei Medici, arricchite nei secoli da lasciti, scambi e donazioni. Raccoglie la più grande collezione d’arte del Rinascimento, in particolare quello fiorentino. Inoltre, ha due notevoli opere del maestro.

Bacco (1597-1598) - Olio su tela - 95x85 cm


Nell’antichità classica, Bacco rappresenta il dio del vino. In questo dipinto troviamo tutti gli elementi tipici della sua iconografia: la corona di foglie di vite o edera, la coppa di vino, il petto scoperto. Il Bacco di Caravaggio ha però ben poco di idealizzato e sembra più simile ad un ragazzo comune del suo tempo, che rivolge lo sguardo all’osservatore per mostrargli un calice di vino rosso. L’eccezionale realismo con cui sono rappresentati alcuni dettagli, come la trasparenza della coppa di vino o la splendida natura morta presente sul tavolo, è qualcosa di straordinario che il pittore rielabora dalla tradizione pittorica lombardo-veneta nella quale si era formato.
In questo dipinto della prima fase dell’artista prevale la luce, ci sono poche ombre poiché i tormenti dell’artista sono ancora lontani a venire. Nel corso di una recente fase di restauro, alcune analisi hanno permesso di scoprire, all'interno della caraffa di vino, un volto di uomo, che i ricercatori ritengono essere l'autoritratto dello stesso Caravaggio nel suo studio.
Il dipinto fu commissionato dal cardinale Del Monte, mecenate dell’artista, uomo di grande cultura nonché ambasciatore del Granducato di Toscana presso la Santa sede, come regalo di nozze per Cosimo II de’ Medici.

Scudo con testa di Medusa (1598) - Olio su tela - 60x55 cm

Anche quest’opera gli fu commissionata dal suo celebre mecenate, il cardinale Francesco Maria Del Monte, già ambasciatore mediceo a Roma e protettore di Galileo, come dono destinato a Ferdinando I de’ Medici, granduca di Toscana.


È una decorazione pittorica ad uno scudo militare da parata. La peculiarità di quest’opera è che l’autore dipinse la tela montata su uno scudo di legno convesso: eppure l’effetto convesso appare annullato grazie alla sua maestria!
La Medusa era una figura che nella mitologia greca tramutava gli uomini in pietra soltanto con il suo sguardo. L’eroe Perseo riuscì nell’impresa di decapitare la Medusa. Caravaggio raffigura la Medusa nell’istante successivo in cui la testa è stata staccata dal corpo ed il sangue ormai sgorga. Lo sguardo è fermo su un unico punto ma si ha la sensazione che i serpenti si muovono ancora da tutte le parti e quindi ci sia ancora del movimento nel soggetto ritratto. Anche qui, lo stile pittorico vede ancora la prevalenza del chiaro sullo scuro. Per uno scherzo del destino, il quadro sembra preannunciare la sua futura ossessione per la decapitazione, che si materializzerà solo dopo il duello mortale con Ranuccio Tomassoni, e la riprenderà in molti dei suoi quadri della fase più matura.
È un capolavoro unico, che rientra tra i miei preferiti del grande maestro.

Il Sacrificio di Isacco (1603) - Olio su tela - 104x135 cm

È un quadro che riproduce una scena estremamente drammatica e di grande realismo, basta osservare il terrore nello sguardo del piccolo Isacco che, a prima vista, turba anche l’osservatore. Uno dei biografi di Caravaggio, Pietro Bellori, descrisse il dipinto come una raffigurazione di "Abramo, il quale tiene il ferro presso la gola del figliuolo che grida e cade”. Proprio questo crudo realismo riprodotto nelle sue opere a volte spingeva i committenti a rifiutare i quadri del pittore.
L’episodio biblico qui riprodotto è noto. Dio mette alla prova la fede di Abramo fino al punto da chiedergli di sacrificare il suo unico figlio Isacco. Abramo obbedisce senza indugio e proprio quando sta per compiere il crudele sacrificio, l’angelo di Dio riesce a fermarlo appena in tempo: con una mano blocca Abramo e con l’altra gli indica di sacrificare al suo posto un ariete impigliato in un cespuglio.

È uno dei rari quadri del maestro dove c’è ancora uno sfondo paesaggistico ben visibile nelle sue opere. Il dipinto fu commissionato dal cardinale Maffeo Barberini, futuro Papa Urbano VIII, ammiratore dell’artista.

La pittura del Caravaggio era molto diversa da quella “di maniera” che imperversava a Roma prima del suo arrivo. L’artista mise in gioco i limiti tradizionali dello spazio del dipinto: le distanze si accorciavano, la forza dirompente della sua rappresentazione “reale” scomodavano lo spettatore, lo obbligava a partecipare più che solo a contemplare. Le reazioni, oggi come allora, potevano essere contrastanti: affascinavano ed insieme irritavano, come le teste tagliate di Olofene o di Golia, la maschera della Medusa o il terrore nel volto del piccolo Isacco.

PALAZZO PITTI

È un imponente palazzo rinascimentale di Firenze Al suo interno è ospitato un insieme di musei, tra cui la Galleria palatina, sistemata secondo il criterio della quadreria settecentesca, con capolavori di Raffaello, Tiziano, Caravaggio e tanti altri. 

Amorino dormiente (1608) - Olio su tela - 72x105 cm

L’amorino (o amore) dormiente è un quadro che si ispira all’amorino, ossia a quella figura mitologica del mondo classico associata all’amore (sia divino che materiale).


Nel dipinto del Caravaggio, l’amorino emerge da un fondo scuro, tipico del periodo più maturo del pittore. Viene illuminato da un fascio di luce calda che fa emergere la sua figura estremamente realistica. È nudo ed addormentato mentre impugna ancora una freccia nella mano sinistra ed ha lasciato a terra la faretra.
La leggenda narra che l’artista prese come modello un bambino morto, cosa che si evincerebbe dall’incarnato chiazzato del fanciullo, che riporta con estremo realismo, anche se la crudezza della scena viene attenuata dalle caratteristiche mitologiche del personaggio.
La tela fu firmata e datata sul retro quando l’artista era ancora a Malta e fu commissionata dal Cavaliere fiorentino Francesco dell’Antella. Giunto a Firenze, entrò successivamente nelle collezioni medicee a seguito dell’acquisto del cardinale Leopoldo de’ Medici.

Ritratto di Antonio Martelli (1608-09) - Olio si tela - 118,5x95 cm

Non si hanno notizie antiche di questo quadro e di come giunse nelle collezioni dei Medici. Solo recentemente si è fatta avanti l'ipotesi che si tratti di Antonio Martelli, cavaliere di Malta, ritratto all'età di circa settanta anni.

Il pittore fu molto legato a lui, tanto da far pensare che la fuga di Caravaggio da Malta, avvenuta poco dopo, sia stata possibile grazie all'aiuto del Martelli. Riferimenti documentali hanno definitivamente confermato questa ipotesi.

Il dipinto appare incompiuto nello sfondo e nei particolari in basso della figura: ipotesi, questa, che farebbe pensare a quest'opera come l'ultima dipinta a Malta.




Il Cavadenti (1608) - Olio si tela - 195x140 cm

L’opera è stata attribuita solo di recente al Caravaggio da alcuni esperti d’arte ma l’attribuzione non è unanime. E’ una delle poche opere “di genere” dipinte dal maestro, nel senso che non ci sono altri significati se non una scena di vita quotidiana, come quella di cavare un dente cariato ad un povero paziente. La tela riporta la realtà così come il pittore la vede, senza filtri di alcun tipo. Si nota a destra la tipica figura di una vecchia che apparirà anche in altri suoi quadri, come ad esempio in Giuditta e Olofene. Più che un dipinto, sembra una specie di fotografia ante litteram! L’opera probabilmente fu portata a Firenze da Antonio Martelli, il Cavaliere di Malta amico di Caravaggio che lo aiutò a fuggire dall’isola. Successivamente entrò a far parte delle collezioni medicee.


NAPOLI


Nessuna città come Napoli amò immediatamente le sue opere senza alcuna remora, il suo personalissimo modo di trasformare la tela in un teatro, la sua capacità di incarnare le storie del Vangelo nel vissuto delle persone comuni. Questo perché l’arte del maestro si combinava perfettamente con l’anima profonda della città. Fu una “combinazione magica” che diede tanti frutti (tra cui la nascita della Scuola Caravaggesca), portò lo stesso entusiasmo che - diversi secoli dopo - avrebbe suscitato in città il talento di un altro immenso “artista”, venuto da lontano come Caravaggio e come quest’ultimo fu adottato ed amato per il suo genio assoluto: Diego Armando Maradona! Guarda caso, in entrambi, la genialità conviveva indissolubilmente con la sregolatezza.


PIO MONTE DELLA MISERICORDIA

Il “Pio Monte della Misericordia” fu fondato nel 1602 da alcuni giovani aristocratici napoletani in un antico palazzo nobiliare nel centro storico di Napoli. L’Istituzione benefica aveva come scopo quello di venire incontro ai bisogni della popolazione più povera della città, afflitta dalla miseria. Con la venuta del pittore a Napoli, l’Istituto commissionò al geniale artista un dipinto che doveva rappresentare il manifesto della loro attività benefica e caritativa. Caravaggio si superò, in una sola grande tela riuscì a raffigurare le sette opere di Misericordia.

Sette Opere di Misericordia (1606-07) - Olio su tela - 390x260 cm

Magnifica! È l’opera più ardita e complessa tra tutte quelle dipinte dal genio di Caravaggio.
Dettaglio della Madonna della Misericordia – Foto da Internet

Il dipinto, chiamato anche Madonna della Misericordia, fu talmente apprezzato dall’Istituzione benefica che nel 1621, di fronte all’ennesima richiesta di poter copiare il quadro, i governatori del Pio Monte della Misericordia stabilirono che quest’opera non doveva mai essere copiata e non si doveva mai muovere dal suo posto. Come a stabilire che l’opera era ormai profondamente legata ad un contesto sociale, morale, caritativo, di fondamentale importanza pubblica come l’assistenza agli ultimi della società. Una lungimiranza da prendere come esempio anche per i nostri tempi.


Il quadro è sicuramente uno dei più grandi capolavori di Caravaggio, se non il più grande. Il celebre critico d’arte Roberto Longhi, a cui va dato il merito di aver rivalutato la figura e l’opera del Caravaggio a partire dalla seconda metà del Novecento, grazie all’eccezionale mostra da lui curata "Caravaggio e i caravaggeschi" nel 1951, non a caso utilizzò come “immagine di locandina” della storica mostra il dettaglio della Madonna col Bambino di questa tela. Le sue parole di elogio per quest’opera sono perciò da riportare integralmente:
«Quelle delle Opere di Misericordia era un soggetto antico, comunale, romanico, che gli sarà venuto incontro inevitabilmente non appena giunto a Napoli in qualche crocicchio famoso, rimescolato tra ricchi e poveri, tra miseria e nobiltà, ed è curioso che egli vi si serve persino di citazioni antiche: Cimone e Pero gli torna bene per la popolana che allatta il vecchio alla grata della prigione, il Gentiluomo che sfodera la spada vuole spartire, come San Martino, il suo mantello col mendicante ignudo; l’oste e l’albergatore (forse quello tedesco che teneva l’albergo del Cerriglio presso Santa Maria la Nova) danno da bere all’assetato che si serve all’uopo, come Sansone, della mascella d’asino. Almeno tre citazioni remotissime. E la camera scura è trovata all'imbrunire, in un quadriglio napoletano sotto il volo degli angeli lazzari che fanno la "voltatella" all'altezza dei primi piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra cui ora si affaccia una "nostra donna col bambino", belli entrambi come un Raffaello "senza seggiola" perché ripresi dalla verità nuda di Forcella o di Pizzofalcone. Si direbbe che mai il Caravaggio si sia sentito più libero che in questo primo argomento napoletano».
In questo dipinto il pittore ritrova la sua piena libertà artistica, riesce a portare sull’altare la vita brulicante di ogni giorno, trasformando il tessuto del quotidiano in un’immagine sacra di fronte alla quale pregare e celebrare la messa.
L’opera sembra quasi una macchina teatrale dove Caravaggio fa entrare in scena ben 14 personaggi, divini e terreni. Allo stesso tempo, tutto è luce e buio, in un intrico di forme e di scene che hanno come perno centrale il cero acceso del sacerdote in fondo che aumenta la profondità del quadro.
In alto c’è la scena divina, dove la Madonna col Bambino accompagnati da due angeli, in un quartetto bellissimo, vegliano su tutto ciò che succede sulle vicende umane rappresentate in basso. Già questa scena vale, da sola, il “prezzo del biglietto”: la bellezza delle figure, il dinamismo e la torsione di questi corpi sono un primo grande pezzo di bravura.


In basso c’è la scena terrena, potrebbe essere ambientata tranquillamente in un qualsiasi vicolo di Napoli: come sempre, la vita di strada è ben presente nelle opere del maestro.
Si parte dalla destra. Cimone, un antico personaggio romano, è incarcerato e condannato a morire di fame ma viene allattato in segreto dalla figlia Pero che è venuta a visitarlo (visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati). Dietro il muro del carcere si vede un becchino che trasporta un cadavere di cui si vedono solo i piedi, accompagnato dal cero del sacerdote (seppellire i morti). A sinistra in primo piano, il cavaliere con la piuma (San Martino) divide il proprio mantello con un infermo ignudo a terra (vestire gli ignudi e visitare gli infermi). Indietro, un uomo con una conchiglia sul cappello, simbolo del pellegrino, è accolto dall’uomo di fronte (ospitare i pellegrini). All’estrema sinistra è rappresentato l’eroe biblico Sansone che beve in una leggendaria mascella d’asino (dare da bere agli assetati).
È la straordinaria rappresentazione di una scena complessa, potente e immediata. I piedi lividi del morto, le gocce di latte sulla barba del vecchio, i lineamenti delicati della madonna e del bambino, le teste ricciolute degli angeli, sono particolari che non si dimenticano.
È indubbiamente uno dei più grandi capolavori del maestro, anch’esso tra i miei preferiti in assoluto.

GALLERIE D’ITALIA

Le Gallerie d'Italia di Napoli sono un museo ubicato all'interno dello storico palazzo del Banco di Napoli, in via Toledo.

Martirio di Sant’Orsola (1610) - Olio su tela - 143x189 cm

È l’ultimo capolavoro dipinto dal maestro prima della sua prematura scomparsa. Il dipinto fu commissionato a Napoli dal banchiere genovese Marcantonio Doria prima che il pittore s’imbarcasse per il suo viaggio di ritorno a Roma. Una volta eseguito il quadro, al fine di spedirlo velocemente al committente, lo spedizioniere mise incautamente ad essiccare il dipinto ai raggi del sole e questo sicuramente gli fece perdere in parte la qualità dei colori. Restò per secoli in mano alla famiglia genovese fino a che non fu ereditato da un ramo secondario dei Doria residente a Napoli, nel palazzo Doria D’Angri di via Toledo. Era destino che l’opera doveva ritornare nel suo luogo d’origine.
Tuttavia, negli ultimi passaggi ereditari se ne perse la memoria dell’autore e per molto tempo si credette un’opera di Mattia Preti, un pittore caravaggesco. Nel 1973 la Banca Commerciale Italiana (oggi Banca Intesa) l’acquistò quando la paternità dell’opera era ancora incerta e fu naturalmente un grande affare. Già dai successivi lavori di restauro dell'opera emersero nuove informazioni che iniziarono a chiarire la storia. Tra queste informazioni vi fu quella della comparsa sul retro della stoffa di una scritta antica «D. Michel Angelo da Caravagio 1616 M.A.D.», dove l'acronimo sta ad indicare il nome del committente Marco Antonio Doria mentre l'anno fu erroneamente trascritto, dato che avrebbe dovuto essere il 1610.
Nel 1980 uno storico d’arte napoletano, Vincenzo Pacelli, riuscì a rintracciare la lettera del 1610 con la quale il mediatore napoletano spediva ai Doria di Genova il quadro, attestandone così l’assoluta certezza della paternità al Caravaggio.

Nel Martirio di Sant’Orsola l’artista rappresenta il momento, estrapolato dalla tradizione del IV secolo, in cui Attila (il terribile guerriero unno denominato il “flagello di Dio”) uccide la giovane Orsola con una freccia, dopo che lei ha rifiutato di sposarlo. La scena è ambientata nella tenda del capo unno ed è caratterizzata da una moderna dinamicità: da sinistra, Attila, raffigurato in abiti secenteschi, sembra essersi già pentito di aver scoccato la freccia mortale dal proprio arco tenuto ancora in pugno, mentre Orsola, rivolta su sé stessa, osserva l’arma e le prime gocce di sangue sgorgare dal suo petto. Il colore biancastro della sua pelle, diverso da quello di tutti gli altri personaggi, prelude già alla sua triste ed imminente morte.

Tra i tre barbari presenti sulla scena, anche loro vestiti in abiti seicenteschi e che sembrano sorpresi dal colpo improvviso scagliato dal loro capo, si scorge a destra il volto reclinato e dolorante di uno di essi, che è visibilmente un autoritratto del Caravaggio. In questo modo, si raffigura sofferente, come se subisse la violenza del colpo insieme alla giovane martire.
L’opera è il drammatico canto del cigno del maestro, il suo ultimo grande capolavoro.


MUSEO DI CAPODIMONTE

Nel 1734 salì al trono di Napoli Carlo di Borbone, un grande Re illuminato che volle dare una degna sistemazione alla fenomenale collezione di opere d'arte ereditata dalla madre, Elisabetta Farnese, che era stata una delle donne più potenti del suo tempo, ultima discendente dei Farnese, principessa di Parma e Piacenza, andata in sposa al Re di Spagna Filippo V. L’immensa collezione artistica della sua famiglia (la celebre collezione Farnese), iniziata da papa Paolo III nel XVI secolo e portata avanti dai suoi eredi, era composta per una parte dai reperti archeologici ritrovati nella città eterna (che formeranno il futuro nucleo del Museo Archeologico Nazionale, insieme ai tesori scoperti negli scavi di Pompei ed Ercolano voluti da Carlo di Borbone) e per l’altra parte da una preziosa collezione antica di quadri.

F. Solimena - Ritratto di Carlo di Borbone

Dato la vicinanza al mare del Palazzo Reale di Napoli, che comportava il rischio di un maggior deterioramento delle opere pittoriche, il Re avviò i lavori di costruzione di un nuovo palazzo, sulla collina di Capodimonte, da adibire come nuovo museo. Nacque così la Reggia di Capodimonte che ospitò i più grandi capolavori pittorici del regno di Napoli.

Agli inizi dell’Ottocento, l’occupazione Napoleonica diede un brutto colpo al polo museale di Capodimonte che fu trasformato in uso abitativo. Per fortuna il re dell’epoca, Ferdinando di Borbone, temendo il peggio, aveva preventivamente trasferito le opere più preziose a Palermo e fu così che si salvarono dalle espoliazioni napoleoniche.

Reggia di Capodimonte - Salone delle feste

Con l’unità d’Italia, la reggia di Capodimonte ritornò a rinascere come polo culturale e museale ma fu solo dopo la seconda guerra mondiale che si arrivò ad una soluzione ottimale. Infatti, su impulso di grandi personalità illustri della cultura italiana, tra cui il filosofo Benedetto Croce, si decise di dare finalmente una sistemazione definitiva al prestigioso polo museale napoletano. L’antica collezione statuaria dei Farnese, arricchita dai tesori archeologici raccolti dagli scavi di Pompei Ercolano e Stabia, furono sistemati nell’ex Palazzo degli Studi, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale (MANN), ritenuto il più ricco museo al mondo per le antichità greco-romane. Invece, l’antica collezione pittorica dei Farnese (e le successive acquisizioni provenienti soprattutto della scuola pittorica napoletana) fu sistemata al Museo Nazionale di Capodimonte, nato ufficialmente nel 1949. Oltre ad ospitare opere di grandi artisti come Masaccio, Raffaello, Botticelli, Tiziano, Luca Giordano, ecc., il museo di Capodimonte oggi custodisce un’opera di Caravaggio di grande bellezza: la Flagellazione di Cristo.

Flagellazione di Cristo (1607/08) - Olio su tela - 286x213 cm

È considerata una delle opere più significative della sua piena maturità artistica. Il dipinto fu commissionato dal nobile napoletano Tommaso de’ Franchis per adornare la cappella di famiglia situata nella chiesa di San Domenico maggiore nel centro storico di Napoli. Una volta realizzata, la tela fu collocata sull'altare maggiore della cappella. Nel 1672 Pietro Bellori, uno dei biografi di Caravaggio, la vide in loco e la fece rientrare tra i primi dipinti compiuti dal Merisi una volta giunto a Napoli. Come tutte le opere di Caravaggio a Napoli, fu subito apprezzata dai suoi contemporanei. Uno storico napoletano del Seicento, Carlo de Lellis, in una nota la descrisse come «la più bell’opera che già mai fatto habbia questo illustre dipintore».
Il quadro rimase in chiesa fino al 1980 quando, a seguito del tremendo terremoto dell'Irpinia, la Flagellazione venne trasferita per ragioni di sicurezza nel Museo di Capodimonte. I dettagli dei corpi che emergono dal buio assoluto sono stupefacenti, grazie ad una luce quasi accecante, che sottolinea con grande drammaticità l'evento che il dipinto racconta.

La colonna a cui è incatenato il Cristo si intravede appena mentre la luce illumina potente il volto, il busto di Cristo e gli aguzzini, che sono vestiti non come soldati romani ma con abiti seicenteschi. Il dipinto ricorda, nella costruzione dell’impianto scenografico, il Martirio di San Pietro nella Chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma. Ma mentre in quest’ultima rappresentazione, gli aguzzini danno più l’idea di semplici lavoratori che stanno lì per fare il proprio dovere, gli aguzzini della Flagellazione, di cui due all’impiedi e uno accosciato, danno l’impressione di essere consapevoli della brutalità e della sofferenza che infliggono alla vittima.

L'opera fu talmente apprezzata dall'ambiente artistico napoletano al punto che ne fu richiesta una copia ad un pittore napoletano del Seicento (di scuola caravaggesca), Andrea Vaccaro. Ancora oggi, questa copia è conservata nella cappella del Rosario della chiesa di San Domenico, al posto di dov'era la tela originale prima del suo definitivo spostamento al Museo di Capodimonte.
Lo splendido dettaglio del busto di Cristo venne usato per un francobollo da 100 lire emesso dalle Poste Italiane nel 1975, nell'ambito della ventesima emissione della serie Europa.
È un altro capolavoro del maestro che rientra tra i miei preferiti.

PALERMO

ORATORIO SAN LORENZO

Natività con i Santi Lorenzo e S. Francesco d’Assisi (1600) - olio su tela - 268x197 cm

Questa magnifica tela fu commissionata per celebrare il culto di San Lorenzo e di San Francesco e posta sull’altare maggiore dell'oratorio di San Lorenzo a Palermo. Non si conosce con certezza quando fu effettivamente dipinta ma gli storici presumono nel 1600, dato che ci sono notizie di un suo soggiorno a Palermo nel periodo della fuga. Il dipinto esprime l’evento della natività attraverso il linguaggio dei corpi, tipico del Caravaggio.
Purtroppo, la tela fu rubata nel 1969, presumibilmente dalla mafia, e non è stata più ritrovata. L’FBI l’ha ancora oggi inserita tra le 10 opere d’arte da ritrovare più preziose al mondo. Quello che si vede oggi nell’oratorio (e nella foto sopra) è una copia abbastanza recente che è stata riprodotta da una fotografia a colori, quest’ultima effettuata dopo il restauro della tela avvenuta negli anni sessanta prima della sua scomparsa.

MILANO

PINACOTECA AMBROSIANA

Il cardinale Federico Borromeo agli inizi del Seicento maturò l’idea di creare, nella sua città, un'istituzione culturale ad ampio respiro rivolta soprattutto ai meno abbienti «per un servizio universale a gloria di Dio e per la promozione integrale dei valori umanistici», il tutto grazie ad un suo generoso lascito pubblico.
La prima fase di questo progetto fu l'apertura al pubblico della Biblioteca Ambrosiana, che avvenne nel 1609. L’istituzione fu apprezzata persino da Galileo Galilei che nel 1623, scrivendo allo stesso cardinale Federico, la definì «l'eroica et immortal libreria».

Sala Federiciana della Biblioteca Ambrosiana

L’operato dell’illustre prelato fu lodato molto anche dai posteri, in particolare da Alessandro Manzoni che non solo inserì il cardinale tra i grandi protagonisti del suo romanzo storico “I Promessi Sposi” ma descrisse nei dettagli, al Capitolo XXII, questa sua meritevole fondazione «che Federigo ideò con sì animosa lautezza ed eresse, con tanto dispendio, dai fondamenti». Agli inizi del Seicento era considerata come «cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d’Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n’aveva neppur l’idea». Per tutte queste ragioni, il grande poeta elogiò la lungimiranza del cardinale Borromeo: «ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovess'essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos’importa? e c’era altro da pensare? e che bell’invenzione! e mancava anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in quell’impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de’ suoi».
Ritratto di Federico Borromeo - Pittore lombardo

Accanto alla fondazione di una delle prime biblioteche veramente aperte al pubblico, in una seconda fase, il cardinale Borromeo decise di mettere a disposizione "di tutti" anche i suoi quadri perché non solo le lettere ma anche l’arte figurativa potesse migliorare quella situazione, per cui nel 1618 donò all'Ambrosiana la sua raccolta di dipinti e disegni, costituendo così il nucleo iniziale della Pinacoteca, con opere di Raffaello, Leonardo da Vinci, Tiziano e naturalmente di Caravaggio.
Il cardinale credeva che sia le parole dei libri sia le figure dei quadri potessero costituire un alimento vero per la crescita spirituale delle persone, non solo dei ceti abbienti ma soprattutto per le classi meno agiate. La bellezza andava messa a disposizione di tutti in un progetto, come potremmo dire oggi, fondato sulla crescita spirituale e culturale della persona umana. Una lungimiranza che, dopo tanti secoli, è sempre attualissima.


Canestra di frutta (1597-1600) - Olio su tela - 46x64 cm

Tra i quadri personali che il Cardinale volle mettere a disposizione della pinacoteca pubblica, c’era la famosa Canestra di frutta. Non si conosce con certezza se la commissionò direttamente, la comprò o la ricevette in dono: quello che è certo è che il Borromeo l’acquisì da quel suo compaesano che a Roma era diventato “grande in autorità”. Di questo quadro ne aveva una così alta considerazione che in una sua lettera, nel descrivere la Canestra, affermava quasi a scusarsi: «Avrei voluto affiancarle un'altra simile ma siccome nessun’altra riusciva ad eguagliare per bellezza l’eccellenza incomparabile di quest’opera, è rimasta sola».
Fu la prima opera, non a tema sacro, del maestro ad essere esposta al pubblico e fu l’unica opera che ritornò in Lombardia quando Caravaggio era ancora vivo. All’epoca non era comune vedere un soggetto simile nei dipinti ed è per questo che Caravaggio è l’iniziatore, l’innovatore del concetto di natura morta, presa nella sua unicità e naturalezza. Questo dipinto fu una sorta di spartiacque, dove Caravaggio metteva sullo stesso piano la pittura sacra e quella profana. La sua filosofia pittorica era estremamente moderna: la differenza non stava nel contenuto pittorico, su cosa si dipingeva, la differenza stava nella manifattura, su come si dipingeva, per lui la pittura si divideva in buona e cattiva pittura. Era un concetto rivoluzionario, che faceva prevalere il punto di vista non del Committente ma dell’Artista, di chi l’arte la creava.

Prima di Caravaggio sembrava impossibile dare tutta quest’importanza a della semplice frutta posta al centro della sua pittura, al punto che anche gli studiosi moderni si sono chiesti se la tela dovesse essere solo una parte di un quadro più vasto. Invece no, con queste poche cose, che aveva messo in posa sul tavolo del suo studio, l’artista ritraeva una natura morta di grande bellezza, con la cesta che dava l’impressione di debordare dal quadro a causa della sua composizione apparentemente decentrata ma riequilibrata genialmente con la presenza delle foglie.


Prima dell’avvento dell’Euro, la Repubblica Italiana stampò la celebre moneta da Centomila lire con due immagini caravaggesche: da un lato c’era il ritratto di Caravaggio ad opera di Ottavio Leoni con la sua opera “Buona Ventura” dei musei Capitolini, dall’altra lato c’era solitaria la “Canestra di Frutta” dell’Ambrosiana.

Il quadro è un altro gioiello preziosissimo che rientra tra le mie opere preferite del grande maestro.






PINACOTECA DI BRERA

Non bisogna confondere la Pinacoteca Ambrosiana fondata dal cardinale Federico Borromeo nel 1618 con la Pinacoteca di Brera che invece fu una conseguenza della fondazione dell’Accademia delle Belle Arti di Brera, avvenuta nel 1776, ad opera dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria su impulso del conte Carlo Giuseppe di Firmian, il governatore della Lombardia allora sotto la dominazione austriaca, nonché promotore e collezionista d'arte.

Pinacoteca di Brera

Nel successivo periodo napoleonico, numerose chiese e monasteri vennero soppressi ed i loro beni requisiti. Le opere migliori vennero spedite a Parigi mentre con quelle rimaste si decise di costituire, nelle principali città del regno, una Pinacoteca, tra cui appunto quella di Milano.
Attraverso successive donazioni di privati ed acquisizioni da parte del governo unitario italiano, la Pinacoteca è arrivata fino ai nostri giorni ad avere un ricco repertorio di opere d’arte, che riguardano soprattutto la pittura lombardo-veneta, anche se non mancano diversi capolavori universali, tra cui celebri dipinti del Mantegna, Raffaello, Piero della Francesca e naturalmente un bellissimo Caravaggio.

Cena in Emmaus (1606) - Olio su tela - 141×175 cm

Il dipinto riprende un suo precedente di pari soggetto che Caravaggio aveva creato nel 1602 e che attualmente si trova, come abbiamo visto, nelle collezioni della National Gallery di Londra. Il quadro di Milano è sicuramente più sobrio e asciutto rispetto al capolavoro di Londra poiché nasce in un diverso momento (1606) e soprattutto da un diverso stato d’animo del maestro: si ritiene che questo quadro sia stato il primo dipinto realizzato dopo la sua precipitosa fuga da Roma per sfuggire alla condanna capitale. L’artista si era rifugiato nei feudi di Palestrina della potente famiglia romana dei Colonna. Pur protetto, aveva però bisogno di soldi per spostarsi al di fuori dello stato pontificio, dove era sempre potenzialmente in pericolo. Per questo si rimise subito a dipingere. Uno dei suoi biografi, Pietro Bellori, racconta che fece quest’opera su commissione del marchese Patrizi di Roma, che in questo modo lo sostenne.

La vicenda evangelica rappresentata nel dipinto è famosa. Nei giorni successivi alla Pasqua, due discepoli sono in cammino sulla via per Emmaus ed incontrano un viandante sconosciuto che si affianca a loro per parlare insieme. Raggiunto il posto, i due non lo lasciano andare per la sua strada perché lo invitano a cenare insieme. Il quadro riprende l’attimo in cui lo straniero, durante la cena, spezza il pane benedicendolo: a quel punto gli occhi dei due discepoli “si aprono” e lo riconoscono: è il Cristo Risorto. Il discepolo alla sinistra del maestro sta per sobbalzare dalla sedia mentre quello a destra, ritratto di spalle, allarga le braccia per la sorpresa e la gioia d’averlo riconosciuto.
Questo quadro segna una svolta stilistica nella sua produzione artistica. Fuggendo da Roma, Caravaggio è lontano dal suo studio ed ha portato con sé pochissime cose. Non ha più dunque a disposizione i suoi modelli, ossia il repertorio delle figure consolidate che conosceva e riproduceva alla perfezione e perciò il suo consueto modo di lavorare s’interrompe. A seguito di questa mancanza, l’artista compone “a memoria”, ripensando alla sua precedente Cena in Emmaus. Rifacendola ne esce un’opera che, pur avendo lo stesso legame genetico, appare trasformata in qualcosa di diverso, risulta quasi trasfigurata.
Innanzitutto, è cambiata la gamma dei colori, non ci sono più i colori brillanti della prima versione che culminano nel rosso del mantello di Cristo. È una versione molto più austera, basta soffermarsi sulla presentazione della tavola che, nella prima versione, è riccamente imbandita ed impreziosita dalla presenza di una meravigliosa natura morta. In questa seconda versione invece la tavola è essenziale, ci sono solo dei semplici pani con un’umile brocca di vino, enfatizzando così l’aspetto eucaristico del dipinto.
Le stesse figure non sono riprese da modelli presenti in studio ma dalla sua memoria, perciò vediamo delle fisionomie non estremamente realistiche come ci aveva abituato ma quasi immaginarie, dall’oste alla serva fino ai discepoli. Guardando il quadro, all’estrema sinistra, recenti studi radiografici hanno scoperto che Caravaggio inizialmente aveva dipinto una finestra aperta su un paesaggio che donava più luce alla scena, una soluzione poi eliminata in favore di un’idea più intima e teatrale, sostituita con una grande parete cupa, utilizzando tinte particolarmente scure. Questo nuovo modo di dipingere, con colori terrosi, poveri, apre una fase nuova della sua pittura, che caratterizzerà tutte le sue opere successive, ossia quelle nate dall’esilio e dalla fuga da Roma, dalla quale non riuscirà più a ritornare.

Antonio Pezzullo