Gli scritti di Antonio Pezzullo
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IL NEAPOLITAN POWER
(Il periodo d’oro del grande movimento musicale)
Il cosiddetto “Neapolitan Power”, letteralmente “Potenza Napoletana” (nel senso di forza/energia), è stato un grande movimento musicale nato all’ombra del Vesuvio, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, per poi proseguire - nella sua epoca d’oro - fino alla fine degli anni ottanta, influenzando quasi tre decenni di musica non solo napoletana ma anche italiana. Il risultato di questo fermento musicale, probabilmente irripetibile, fu la fioritura di artisti e di idee che traghettarono la città e il suo bagaglio musicale, culturale e storico, dentro l’epoca contemporanea.
Ancora oggi, quella rivoluzione musicale non ha smesso di produrre i suoi effetti.
GLI ELEMENTI DISTINTIVI
L’elemento principale e distintivo di questo fenomeno musicale è stata indubbiamente l’accoglienza, così autentica da diventare poi contaminazione.
Nella sua storia ultra millenaria, la città di Napoli ha sempre avuto una naturale vocazione all’accoglienza grazie anche alla sua collocazione geografica e alla presenza di un porto di mare sempre aperto al mondo.
Partendo da questa vocazione, Napoli si è ritrovata, prima città in Italia, ad accogliere il blues, il rock & roll, il jazz e il funk portati dai soldati anglo/afroamericani durante l’occupazione della seconda guerra mondiale. Questa influenza è continuata anche nel dopoguerra, dove i ragazzini (e futuri musicisti) ascoltavano ed assimilavano i suoni che riecheggiavano nei locali “americani” del porto, scambiandosi esperienze con i marinari/musicisti che scendevano dalle portaerei della Nato ancorate al largo, alla ricerca non solo di musica ma anche di whisky e “signurine”. Un fenomeno, durato fino alla metà degli anni ottanta, che un giovane Pino Daniele, nato e cresciuto proprio in quella zona, descrisse nel suo “Ué Man” (tratto dall’album Pino Daniele del 1979), il brano che personalmente definisco «il blues secondo Pino».
Se da un lato Napoli non è mai stata una gelosa “fortezza” che si arroccava dietro la sua robusta tradizione musicale, dall’altro lato non è mai stata una “colonia” musicale, grazie alla sua canzone fortemente radicata nell’essenza partenopea. Sono aspetti che avevano ben chiaro i nuovi artisti partenopei che stavano crescendo con la “contaminazione” d’oltreoceano, al punto che nel 1973, nel suo album d’esordio Non farti cadere le braccia, un giovane Edoardo Bennato c’ironizzava sopra da par suo col brano “Rinnegato”, dove il fratello Eugenio lo criticava perché la sua musica aveva «già rotto col passato».
La canzone classica napoletana ha sempre avuto due anime ispiratrici: quella nobile dei grandi poeti (penso a “Era de Maggio” di Salvatore Di Giacomo) e quella popolare (penso a “Scapricciatiello”) per citare solo due grandi classici.
Nel Neapolitan Power la seconda anima prende decisamente il sopravvento: gli stimoli di questo grande fermento provengono principalmente dal basso, dal popolo, ossia da autori e musicisti che traggono ispirazione dalla difficile realtà in cui convivono tutti i giorni. In molti casi, gli artisti diventano la voce della protesta e della resistenza di «nu popolo che cammina sotto ‘o muro» ma mai domo, nonostante le difficoltà della vita.
In definitiva, il Neapolitan Power è la storia di un cambiamento che ha il merito di far evolvere ed arricchire questa gloriosa tradizione. Dall’incontro degli elementi distintivi della cultura musicale partenopea (su tutti: la lingua locale e la melodia) con le suggestioni ritmiche e armoniche del rock & roll, funk, jazz, o con la malinconia del blues, mischiando due lingue musicalmente assonanti come il napoletano e lo slang americano, nasce un nuovo sound che prende a tutti gli effetti la cittadinanza napoletana.
LE ORIGINI
In un breve excursus temporale, in realtà i primi vagiti di questa rivoluzione musicale risalgono a tempi lontani e sono da ascrivere al genio di Renato Carosone.
Sin dai primi anni cinquanta del Novecento, il grande maestro fu il primo artista ad introdurre nelle sue composizioni, seppur nell’alveo della grande tradizione melodica locale, alcuni elementi dei nuovi suoni e ritmi d'oltreoceano, quali lo swing ed il jazz, portati dagli alleati durante la seconda guerra mondiale. La sua presenza sul fronte africano, come ausiliario a seguito delle truppe italiane, contribuì ad arricchire ulteriormente il suo sound. Con celebri canzoni quali “Tu vuò fà l’americano”, “Torero”, “Caravan Petrol”, ecc., fu il felice ed inconsapevole progenitore del Neapolitan Power.
Un giovane Peppino Di Capri, alla fine degli anni cinquanta, iniziò a rinnovare, nel tessuto ritmico, la sonorità della musica partenopea innestando in essa nuove sonorità, dal mambo al cha cha cha. Uno dei suoi primi successi come “Malatia” miscelava lingua e melodia napoletana coi nuovi ritmi d’oltreoceano: la seconda parte del testo era addirittura in inglese, in omaggio ai suoi miti americani. Successivamente reinterpretò, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, anche grandi classici come Voce ‘e notte, Vierno, Munastero ‘e Santa Chiara, ecc. col suo stile originale e innovativo.
Il movimento nasce però ufficialmente in quel fondamentale decennio ispiratore, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, dove la musica prodotta a Napoli entra in una dimensione internazionale, unica nel suo genere, tanto da guadagnarsi il nome di “Neapolitan Power”. In quegli anni, la musica di Napoli era fin troppo avanti!
Tra i protagonisti di questo periodo ci sono (guarda caso) due napoletanissimi figli della guerra. Uno è Gaetano Senese, da tutti chiamato James, come il padre nero-americano che non ha mai conosciuto. Il secondo è Mario Musella, col padre nativo americano (pellerossa). Non vengono dal centro ma dalla periferia napoletana, la stessa dalla quale scovano un altro talento, il batterista Franco Del Prete, col quale fondano il gruppo seminale del Neapolitan Power: The Showmen. Quest’ultimi cantano e suonano in un modo nuovo, diverso, scrivono canzoni d’amore in italiano ma sembrano stranieri, vogliono suonare il rhythm & blues e ne diventano i pionieri in Italia.
Il groove di Franco Del Prete, i virtuosi fiati di James Senese ed Elio D’Anna, i contributi di Giuseppe Botta alla chitarra e Luciano Maglioccola alle tastiere, il basso e la straordinaria voce di Mario Musella spaziano con maestria dalle cover di classici americani come “Georgia on my mind” fino a classici napoletani come “Catarì (Marzo)”, creando nuove canzoni anche in lingua come “Che m’e fatto”, il tutto in uno stile che non si era mai sentito prima.
Anche se si sciolgono presto, nel 1970, nonostante un successivo tentativo di rifondazione (The Showmen 2) che, senza Musella, dura poco, la strada è stata tracciata e la loro opera lascerà una lunga scia ispiratrice. Elio D’Anna forma gli Osanna, uno dei primi gruppi rock progressive, mentre Senese e Del Prete, dopo che Musella ha scelto la strada solista che non gli porterà fortuna, formano un altro pilastro del Neapolitan Power: il gruppo Napoli Centrale.
Grazie ai testi in napoletano di Franco Del Prete, James scopre che il suo modo di cantare sfrenato suona benissimo sul jazz, sul rock e sul blues. Questo perché la lingua napoletana è piena di parole tronche, di cui l’italiano scarseggia.
Grazie anche all’apporto degli altri due membri del gruppo, l’americano Mark Harris e l’inglese Tony Walmsley, napoletani d’adozione, i Napoli Centrale producono un’originale commistione di jazz-rock, non disdegnando blues e funk, L'uso sistematico del dialetto napoletano diventa un loro marchio di fabbrica e il gruppo incarna la resistenza artistica di chi non si arrende al degrado culturale imposto dalle condizioni di vita sfavorevoli. La canzone che incarna maggiormente queste caratteristiche è sicuramente“Campagna”, tratta dal loro primo album Napoli Centrale del 1975.
Esperienze come quelle degli Showmen e dei Napoli Centrale importano a Napoli generi nuovi e li rimodellano attraverso una napoletanizzazione sistematica.
Ma agli inizi degli anni ’70 ci sono anche altri artisti che, a modo loro, contribuiscono ad arricchire il movimento. Uno di questi è Alan Sorrenti. Figlio di un napoletano e di una gallese, nella prima parte della sua carriera Alan sforna un capolavoro di rock progressivo come l’album “Aria” (1972) ma al contempo si confronta con la tradizione napoletana, interpretando in stile progressive il classico “Dicintancello Vuje”. Nei suoi dischi non disdegna di cantare diversi brani in lingua inglese ma il richiamo delle radici è forte in “Sienteme”, un altro notevole brano in cui fonde la lingua e melodia napoletana con gli arrangiamenti di musicisti della west-coast americana, che rendono il brano un piccolo gioiello artistico, prima di virare verso il successo commerciale della disco-music imperante alla fine degli anni ’70.
Altra protagonista è la “Nuova Compagnia di Canto Popolare”, nata nel 1970 grazie ad Eugenio Bennato, Roberto De Simone, Carlo D’angio e Patrizio Trampetti, con il preciso intento di diffondere gli autentici valori della tradizione del popolo napoletano, anche se col passare del tempo si evolve. Alternando alla sua attività musicale anche quella teatrale, promuovendo e partecipando a numerosi spettacoli, il gruppo propone sempre più nuove contaminazioni con artisti di diversa matrice culturale.
Un altro contributo arriva anche dal gruppo nato da una costola della Nuova Compagnia, ossia i Musicanova, fondati nel 1976 da Eugenio Bennato e Carlo D’Angio, di cui fa parte anche un’altra artista importante come Teresa De Sio, che nel 1982 produce l’omonimo album solista “Teresa De Sio” di grande successo, cantato in napoletano con le nuove sonorità, con brani come Aumm Aumm, Voglio ‘e turnà, ecc. Nell’album suonano musicisti del calibro di Tony Esposito, Gigi De Rienzo e Ernesto Vitolo, che insieme a Teresa danno il loro importante contributo alla crescita del movimento.
Un caso a parte è rappresentato dal cantautore Eduardo De Crescenzo. Anche se i suoi lavori più famosi sono in italiano e basati su una melodia partenopea più tradizionale, nel 1983 sforna uno magnifico album in lingua napoletana, “De Crescenzo”, che contiene splendidi brani come “Chiammame”, “Quantu tiempo ce vò”, “A malatia ‘e l’America”, che virano sul nuovo sound anche se quest’ultima canzone non nasconde una sottile critica all’eccessiva americanizzazione della tradizione. La band che suona nel disco è piena espressione di musicisti del movimento: da Rosario Jermano a Claudio Mattone, da Agostino Marangolo a Teresa De Sio.
GLI SVILUPPI
Questa straordinaria generazione di talenti, nata a cavallo degli anni del dopoguerra, si ritrova a lavorare gomito a gomito in un’ideale officina musicale, che sforna alcuni dei musicisti più apprezzati in Italia. Oltre a quelli già citati sopra, ricordiamo i vari Rino Zurzolo, Gigi De Rienzo, Tullio de Piscopo, Enzo Avitabile, Ernesto Vitolo, Tony Esposito, Joe Amoruso, Tony Cercola, Enzo Gragnaniello, Jenny Sorrenti, ecc.
I protagonisti più rappresentativi del periodo d’oro diventano i cantautori Edoardo Bennato e Pino Daniele, che rappresentano i due principali “magneti” che attraggono a Napoli i migliori musicisti in circolazione.
Tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, i due nuovi astri nascenti della musica partenopea non fanno altro che “scambiarsi” i vari musicisti sopra citati, grazie ai quali creano dei capolavori assoluti. E’ un tourbillon di collaborazioni che fa elevare il movimento da fenomeno locale a fenomeno italiano e internazionale.
Se Pino Daniele aveva gravitato prima attorno a Mario Musella (ex The Showmen) suonando la chitarra nel suo disco solista “Arrivederci” e dopo era entrato per un anno a far parte dei Napoli Centrale come bassista, successivamente lo stesso James Senese e altri strumentisti della sua band come Ernesto Vitolo, Agostino Marangolo e Gigi De Rienzo, lavorano a quei fenomenali dischi d’esordio di Pino: Terra Mia (1977), Pino Daniele (1979) e Nero A Metà (1980).
La fucina di talenti sforna ai fiati Enzo Avitabile, uno strumentista a suo agio in molti generi, dal pop al blues, dal funky al soul. Inizia a suonare insieme a Pino Daniele nel disco solista Arrivederci di Mario Musella, collabora in due dischi capolavoro di Edoardo Bennato (Uffà Uffà e Sono Solo Canzonette), che lo fanno conoscere al grande pubblico grazie ai suoi assoli memorabili. Subito dopo inizia la sua carriera solista di successo, sfornando album capolavori come “SOS Brothers” dalle belle sonorità soul e funky condite in salsa partenopea.
Con Alan Sorrenti prima, con Edoardo Bennato e Pino Daniele poi, gravita anche Tony Esposito, uno dei percussionisti più innovativi d’Italia. Il sound ritmico del Neapolitan Power è in parte suo, una miscela sensuale e popolare di blues, funky, jazz, che possiamo ammirare in “Rosso Napoletano” (1974) il suo primo disco solista. Al suo fianco, troviamo un altro grande talento del ritmo, Tullio De Piscopo che, con “Suonando la batteria moderna” del 1974, rivoluzionerà il modo di concepire lo strumento.
Il movimento raggiunge l’apice grazie ai dischi capolavori prodotti in quel periodo da Edoardo Bennato e soprattutto da Pino Daniele, che diventa la punta di diamante del movimento.
Il primo raggiunge vette elevatissime con la cosiddetta trilogia delle favole formata da: Burattino senza fili (1977), Sono solo Canzonette (1980), E’ arrivato un bastimento (1983).
Notevole è anche l’album E’ asciuto pazzo ‘o padrone (1992), un lavoro pieno di rock-blues cantato completamente in napoletano dal suo alter ego Joe Sarnataro in collaborazione con i Blue Stuff, dedicato al triste addio da Napoli di Diego Maradona.
Il secondo sforna quella che io chiamo la sublime trilogia partenopea: Nero a Metà (1980), Vai Mò (1981), Bella ‘mbriana (1982). Ma è probabilmente con il grandioso live Sciò (1984), uno dei migliori dischi dal vivo mai prodotti in Italia, con i suoi strabilianti arrangiamenti ed improvvisazioni che esprimono una creatività e fusion musicale di eccelsa qualità, che il movimento raggiunge la sua massima espressione e potenza.
Se Edoardo diventa il profeta del rock metropolitano, Pino lo diventa del blues metropolitano, incarnano idealmente i vari aspetti dell’evoluzione del movimento e diventano le due facce della stessa magnifica medaglia: il Neapolitan Power.
In Italia non c’era mai stato nulla di così fresco e internazionale come quel suono così magnificamente elaborato. Il Neapolitan Power diventava così la massima espressione musicale internazionale della musica italiana.
Ciò avveniva prima ancora che un altro grande movimento musicale, quello della cosiddetta “world music”, raggiungesse anche la penisola.
L’EREDITA’
Oggi, dopo oltre mezzo secolo dalla sua nascita, è incoraggiante vedere una nuova generazione di musicisti, tra cui anche la nuova figura di producers, i creatori di basi musicali, che cercano di riscoprire questo grande movimento, che non può e non deve essere dimenticato con lo scorrere del tempo.
In diverse circostanze, ripeto spesso una frase: «I giovani devono sapere!».
Noi che siamo stati fedeli testimoni e felici ascoltatori di quella generazione di fenomeni non possiamo non gioire allorché i giovani artisti di oggi s’ispirino, approfondiscono e fanno evolvere quel magnifico suono, come è giusto che sia.
Senza mai dimenticare però che il Neapolitan Power è stato un grande esempio di accoglienza, di contaminazione ed integrazione musicale.
E’ stato altresì l’energia, la vitalità, la fantasia, il coraggio e la dignità con cui Napoli ha saputo rispondere alle conseguenze di un dopoguerra difficile, alla povertà, allo spopolamento delle campagne, all’emigrazione, alla trasformazione urbanistica e ai disagi delle periferie, alle ingiustizie sociali e al pregiudizio. E’ stato il grido di denuncia, la voce della protesta, la voglia di cambiamento, la resistenza artistica di chi non si arrendeva al degrado culturale imposto dalle condizioni di vita sfavorevoli.
Mi auguro di cuore che i giovani artisti apprendano questa grande lezione che viene dal nostro vicino e glorioso passato.
Antonio Pezzullo (grato d’essere stato svezzato e cresciuto col sound del Neapolitan Power)
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